sabato 3 novembre 2012

Femminicidio in Italia: superata quota 100


No, non si vince nulla. Il numero delle vittime è una sconfitta per tutti e soprattutto per chi ha l’incarico di porvi fine.
Ogni 48 ore una donna viene uccisa in Italia. Telefono Rosa parla di morte in contesti di violenza domestica, uccise dal compagno, marito, amante o ex, addirittura dal padre o dal fratello. Secondo il rapporto 2011, l’87% delle donne che si sono rivolte all’associazione hanno subito violenza dai loro “cari” e secondo l’Istat il tasso di questi omicidi supera il 70% sul totale delle donne uccise. Ogni vittima rappresenta una storia, fatta di scelte, relazioni, sogni che viene spezzata in un attimo, come non avesse valore.
Non sempre le donne minacciate e abusate tacciono per timore, subendo una escalation di violenze che farà loro perdere la vita. Spesso, troppo spesso, sono donne che prima con voce debole e poi sempre più forte hanno chiesto aiuto, ma a conti fatti la legge difende più i criminali che le vittime. Il rapporto Italia 2011 dell’Eurispes rivela che le denunce nel 40% dei casi sono arrivate prima del crimine. Ma che pretendere se viviamo in un paese che solo nel 1981 ha abrogato le attenuanti previste dal Codice Rocco per il “delitto d’onore”?
Così come per le vittime di stupro, che si devono difendere in tribunale dagli attacchi lascivi di giudici e avvocati che scaricano su di loro la colpa e le umiliano violentandole di nuovo. Che dire del disgusto suscitato dalla recente sentenza della Cassazione secondo cui per gli autori di uno stupro di gruppo il
giudice non è più obbligato a disporre o a mantenere la custodia in carcere degli indagati, ma può applicare misure cautelari alternative? In poche parole, gli stupratori restano liberi. Liberi di farla pagare a chi li ha denunciati. Sentenze scritte da uomini, su leggi fatte da uomini, in un paese governato da uomini. E con articoli scritti da uomini che cercano di giustificare i carnefici, sottintendendo che la donna ha le sue responsabilità di quanto accaduto: “un gesto irrazionale”, “un disagio sociale”, “sconvolto dalla depressione”, “delitto passionale”, “non sopportava di essere lasciato, perché l’amava troppo”, ecc. Tanto vergognoso da far insorgere le croniste che hanno costituito GiULiA, la rete delle Giornaliste unite libere autonome, contro la cronaca-spettacolo, l’uso del corpo delle donne sui media e per un’informazione rispettosa delle donne.
È più di un sospetto l’idea che sia nei tribunali che sui giornali e nella società, il carnefice, qualunque carnefice, sia in realtà ammirato per avere imposto con la forza la sua volontà, mentre la vittima è disprezzata per la sua debolezza, perché non ha saputo difendersi. E lo dimostrano la condiscendenza con cui vengono trattati i criminali: vengono chiamati con il nome di battesimo, che indica un volersi avvicinare al personaggio, avere con lui famigliarità; la loro vita è costantemente sotto i riflettori come star, invitati nei salotti televisivi e corteggiatissimi anche solo per un commento; ricevono migliaia di lettere di fan nelle carceri e ci si preoccupa che lì la loro salute non sia compromessa, altrimenti bisogna correre ai ripari e farli uscire.
“Nessuno tocchi Caino”, ma di Abele e delle altre vittime si dimenticano tutti molto presto, perché non sono abbastanza interessanti. Sono personaggi troppo deboli che non fanno audience. Non solo. Le loro lamentele risultano anche fastidiose!

Così, le donne minacciate e violate vengono lasciate sole dallo Stato e si portano addosso un marchio indelebile: la condanna a morte. Occorrerebbe che certi giudici fossero perseguibili penalmente per istigazione a delinquere e, nei casi peggiori, come mandanti di femminicidio.
Sì, è questo il termine da usare e non deve essere frainteso, perché la lotta a questo abominio parte dal riconoscere l’omicidio di genere, di una donna in quanto donna. Femminicidio è il neologismo coniato ufficialmente nel 2009, quando il Messico è stato condannato dalla Corte interamericana dei diritti umani per le 500 donne violentate e uccise dal 1993 senza alcun intervento da parte delle autorità di Ciudad Juarez, nello Stato di Chihuahua. Donne gettate nella spazzatura o sciolte nell’acido anche da uomini delle forze dell’ordine.
Quindi, il femminicidio è un fatto sociale, perché determinato da relazioni di potere. La vittima viene punita perché non si è voluta conformare al volere della società patriarcale o dell’uomo che essa le riconosce come suo “padrone”. Una società che si fonda su ideologie preposte a giustificare e perpetuare discriminazioni, disuguaglianze, differenze di classe a scapito del più debole, trattato più da oggetto che da soggetto. Questa è la realtà italiana così come è stata riconosciuta dal Comitato per l’attuazione della CEDAW (la Convenzione ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne). Nelle Raccomandazioni all’Italia, si è detto “preoccupato per l’elevato numero di donne uccise dai propri partner o ex-partner (femminicidi), che possono indicare il fallimento delle Autorità dello Stato-membro nel proteggere adeguatamente le donne, vittime dei loro partner o ex partner’’. L’Italia ha un altro triste primato: è stata la prima volta che il Comitato CEDAW ha parlato di ‘femminicidio’ in relazione a un paese non latinoamericano. Rashida Manjoo, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne ha affermato che “È la prima causa di morte in Italia per le donne tra i 16 e i 44 anni”. Inviata in Italia a valutare le “risposte” dello Stato, le ha ritenute “non appropriate, né di protezione”, e ha definito senza mezzi termini il femminicidio “crimine di Stato”, in quanto “tollerato dalle pubbliche istituzioni”.
Fatalmente consapevoli di una emancipazione incompiuta, le donne hanno la generosità e il coraggio di difendersi tra loro, fino al sacrificio estremo. Come Carmela Petrucci, la ragazzina siciliana di diciassette anni che ha fatto scudo con il suo corpo per proteggere la sorella dalla furia omicida dell’ex fidanzato, dando la vita per lei. A seguito dell’orrore suscitato, è stato pubblicato un appello dall’associazione nazionale dei centri antiviolenza “Donne in Rete” che annuncia Carmela come 105° vittima di femminicidio  in Italia dall’inizio del 2012 e che chiede “al governo italiano, al Parlamento, alla società civile, affinché, in tempi brevissimi, sia ratificata nel nostro ordinamento la Convenzione del Consiglio d’Europa firmata a Istanbul che vincola i Paesi aderenti ad azioni e iniziative importanti di contrasto alla violenza sulle donne, sia finalmente attuato il Piano nazionale antiviolenza e si sostengano con finanziamenti adeguati, tutti i centri antiviolenza aderenti alla Rete nazionale”.
Il giornalista Riccardo Iacona ha raccolto le storie dei carnefici nel libro Se questi sono gli uomini,
pubblicato da Chiarelettere editore. Ne è uscito il ritratto raccapricciante di uomini che odiano le donne perché sono vincenti dove loro falliscono e si sentono autorizzati a recuperare il potere usando la violenza. Incapaci di accettare il rifiuto, cercano di impedire che la donna possa sottrarsi a costrizioni e controlli. Soprattutto, non ne tollerano la capacità di riuscire a vivere da sole, perché loro sono privi di autonomia emotiva.
 

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